Anche aprendoli
mi pare di non scorgere nulla di particolarmente interessante, è piuttosto
angusto qui, accogliente, tranquillizzante ma, diciamocelo: stretto.
Caldo, umido, è
come se fossi immerso in uno stagno lievemente limaccioso, come un pomeriggio di
mezzo luglio ad Ischia. Oh, intendiamoci, ci sto bene qui, non mi posso certo
lamentare. I rumori mi giungono attutiti, riconosco una voce, forse un'altra e
poi la musica.
A volte sono
nervoso, incerto, mi giro e mi rigiro tentando di riposare un poco e poi
finalmente Shubert, uno dei miei preferiti. E' un pianoforte, lo riconosco, le
note dell' Improvviso in A maggiore mi giungono attutite e struggenti, piangerei di gioia
se conoscessi la gioia, mi rannicchio e mi lascio cullare fino ad assopirmi.
Mi dispiace lasciare
questo posto; sì, è un po'angusto, ma del resto anch'io non sono un gigante,
peserò si e no tre chili e mezzo di cui gran parte messi su in questi ultimi
giorni.
Sento che il
grande momento si avvicina. Lo percepisco dalle spinte attorno, dal nervosismo
che ogni tanto mi assale ma, soprattutto, l'ho capito dai discorsi che, come la
musica, mi giungono chiari, trasmessi alle onde del lago che mi circonda,
rimandati dalla pelle ormai tesa come un tamburo del pancione della mia mamma.
E adesso? Non mi
sento pronto. Anzi, a dirla tutta non ho ancora deciso se farlo oppure no
questo passo.
Certo
"loro" ci rimarrebbero proprio male, sono nove mesi che aspettano di
vedermi. Non tanto mia madre, lei ed io siamo come uniti da un cordone. Mio
padre è il vero problema. Chi lo conosce? lo no e lui tanto meno. Si, certo,
riconosco la sua voce, sento il suo orecchio teso sul pancione quando parla con
mamma; con lui non so proprio come comportarmi, non vorrei deluderlo. Con mamma
è diverso. Da nove mesi mangio con lei, lei mi parla, ultimamente ho anche
trovato un sistema per risponderle: lei mi chiama, mi accarezza attraverso la
pancia ed io le rispondo con un calcetto, mi giro e replico con una gomitata.
Loro mi
aspettano la fuori con trepidazione e paura.
Come posso
deluderli? Sarei un verme, passerei alla storia come una specie di Celestino IV
"che per viltà fece il gran rifiuto ", o qualcosa del genere.
Intendiamoci,
non è viltà la mia. E' una razionale visione di quello che mi aspetta.
Ho cambiato
posizione, ora sono a testa in giù. Pronto. Come posso mettermi a fare un
bilancio preventivo di quello che mi aspetta in una posizione tanto scomoda,
con la testa infilata nel collo dell'utero!
Tempo. Datemi un
attimo, prometto che deciderò rapidamente. Ohi, questo canale mi stava proprio
stretto, ho fatto bene a fare un passo indietro. Pensiamoci con calma,
valutiamo. Diamo il giusto peso alle cose.
Quanto vale la
loro attesa?
Più delle
mortificazioni degli arroganti? Più della malattia? Più del dolore della prima
perdita? Più dell'ansia nella ricerca della stabilità? Più di un futuro in un
mondo ormai sempre più inquinato, malvagio e puzzolente? Più delle notti di
veglia nell'attesa di un ritorno? Più dell'attesa di un bacio nelle tiepide
sere di primavera? No, no, non ci siamo, questo sconvolge tutta la contabilità.
I primi fremiti
d'amore quanto valgono? E i tradimenti? E il dolore del distacco dai figli
ormai grandi?
Non mi
innamorerò mai, non avrò figli e festa finita.
Ma allora cosa
esco a fare? Quante serate disteso sulla spiaggia, mano nella mano a contar le
stelle mi perderò? Posso rinunciare al profumo della terra bagnata dopo un
temporale? E i sogni, i sogni, la musica, il canto delle allodole, l'aria delle
sere d'estate e la fragranza di un corpo dopo l'amore, le coccole, le mani tra
i capelli. Posso rinunciare ai giuramenti davanti al mare, ad un tramonto sulla
brughiera solo per la paura di non farcela? Spingi. Arrivo.
Una spalla, poi
l'altra.
Flashhh! Un lampo di luce. Che rumore. Che
vita. Eccovi finalmente, siete contenti? L'abbraccio tranquillizzante e caldo,
il mondo da fuori. Sono così commosso che mi viene da piangere.
Ueeeh, U eeeh.
9 e trenta del mattino. La prossima è Cremona.
Mi sarebbe piaciuto essere un liutaio ... Amati,
Stradivari; Guarneri del Gesù, il mio preferito. Non so suonare il violino e in
fondo non riconoscerei il suono di uno strumento fabbricato ieri
a Taiwan da quello di uno Stradivari del
valore di tre, quatto milioni ... però, quel nome: Guarneri del Gesù, già il
nome è musica preziosa.
Stazione di Cremona, la nebbia che avvolge,
nasconde e protegge come quella di stamani. Così immagino fosse allora, tanti
'anni fa. Qualche carro sul
selciato sconnesso, il rumore dei passi attutito dalla nebbia e una nota di
violino che proviene da una bottega con le finestre illuminate nonostante
l'ora. Viaggio "contromano", mancano tre ore a Roma e dal finestrino
del mio scomparto scorgo appena gli olmi ghiacciati, gli attrezzi da lavoro
come abbandonati nella campagna stopposa.
Fuori, la nebbia, e Guarneri del Gesù, il
calore della bottega, l'odore della gommalacca e della colla, il legno che si
curva e stagiona, si addomestica all'arte. Ho sempre amato la musica, forse
perché l'ascoltavano i miei, fin da piccolo; quando facevo i capricci per
addormentarmi, mia madre mi calmava mugolando un 'aria classica, penso che
fosse Shubert, o Chopin non so. La nebbia è sempre più fitta stamattina, ho
fatto bene a prendere il treno cosi Martina non sta in pensiero.
Buio. Sarà
perché ho gli occhi chiusi.
Aprendoli scorgo
gli scuri accostati. Nella penombra, in silenzio, Martina, Carlo, Simo e
Letizia. Mi fissano. Letizia ha gli occhi umidi, come sua madre. Percepisco
appena la mano di Simo sulla mia, anche lei deve aver pianto, tira su col naso.
Sento che il mio
tempo sta per finire. Lo intuisco dagli sguardi attorno, dal nervosismo che
ogni tanto mi assale. Dove finiscono tutti i ricordi quando si diventa grandi,
quando si sta per andarsene? Dovrebbe restare almeno un sogno al quale
aggrapparsi per non scivolare via.
Sono vecchio e
ricco. Di ricordi, di sogni, di profumi, risate e lacrime. L'odore
dell'oleandro si confonde alla fragranza dei capelli di Martina appena lavati.
Ho visto il sole sorgere dalle valli di Caushung, l'ho seguito tramontare
seduto sul molo di Key West, ricordo, come fosse ora, Frank Sinatra che canta
My Way, Letizia che mi racconta che avrà un bambino. Come faccio a ricordare le
note struggenti di Always e non il primo bacio a Lucia?
Kafka affermava
che tre sono le cose che contano nella vita di un uomo: coltivare un campo,
piantare un albero, generare un figlio. Se le cose stanno cosi non devo proprio
aver rimpianti. Ho visto nascere i miei figli e i figli dei miei figli, il
ciliegio che ho piantato dà frutti sempre più dolci. I campi li ho percorsi con
la vista curiosa della nuova vita, amando la terra smossa dall'aratro e il
lento divenire delle messi.
Fuori è ormai sera, lo percepisco dai rumori
rallentati, dal silenzio degli uccelli. «Martina, tesoro, ti dispiacerebbe scostare gli scuri e
aprire la finestra, deve esserci una bella stellata».
Cosa ha detto
Kant prima di morire? «Es ist gut»
Flashhh!
Un lampo di luce, che silenzio, che pace. Sono così stanco di
camminare, è cosi, forse, che si
muore?